Il binomio scrittura-malattia ha conosciuto svariate metamorfosi nella storia della letteratura, ma costanti rimangono alcuni nessi principali. Da un lato c’è la malattia come punizione misteriosa che genera scrittura nella ricerca della colpa che l’ha provocata, e cioè di un senso (è il modello di Giobbe e della teodicea); dall’altro la malattia si pone come la fine del senso e della scrittura, figura del limite necessario del discorso su di sé o sul mondo. Certamente varia il protocollo adottato (profezia/poesia, racconto auto/biografico o finzione romanzesca) conformemente a un percorso che, dall’antichità a oggi, porta prima a una progressiva moralizzazione del tema in età cristiana, e poi a una sua secolarizzazione con l’illuminismo; varia però anche il tono, che accanto alle note liriche, tragiche e melodrammatiche dell’età moderna, ne vede affermarsi di nuove, paradossalmente umoristiche e autoironiche, nella contemporaneità. È su questo filone autoironico della narrazione del malato su se stesso che vorrei soffermarmi, confrontando due testi stilisticamente molto diversi come The Anatomy Lesson di Philip Roth (1983) e Il male oscuro di Giuseppe Berto (1964): due romanzi al tempo stesso lontanissimi per contesto e presupposti, ma sorprendentemente affini per temi e gestione retorica; scritti da due autori che appartengono a due generazioni diverse e diversamente fanno i conti con modelli della tradizione modernista. Infatti, l’adozione della distanza ironica permette di realizzare una sintesi fra racconto oggettivo e soggettivo, e perciò di elaborare una topica del discorso buffo sulla malattia che partendo dall’ipocondria più o meno giustificata del malato arriva a descrivere un intero mondo dissestato (fatto di padri anaffettivi e punitivi, medici narcisisti e ciarlatani, mogli sollecite e infedeli, meschinità sociali); un mondo di malati nel corpo o nella mente che – a tratti e con diverse modalità – richiama quel rovesciamento carnevalesco del rapporto salute/malattia, ragione/follia già esplorato da Molière, Pope, Goldoni e prima ancora dalla trattatistica e dalla letteratura del Rinascimento. Se infatti Berto e Roth mettono certamente a frutto le suggestioni di precedenti immediati (nel caso del Male oscuro, ad esempio, Gozzano, Gadda, Svevo e Pirandello), è vero anche che i loro romanzi possono essere letti come esiti contemporanei e diversissimi di una torsione autoironica del discorso del malato e/o del folle su se stesso che si determina a partire dall’età rinascimentale, e cioè da Erasmo, Ariosto e Cervantes.

Malattia e racconto auto/biografico: l’opzione dell’ironia. Giuseppe Berto e Philip Roth

Lucia Fiorella
2021-01-01

Abstract

Il binomio scrittura-malattia ha conosciuto svariate metamorfosi nella storia della letteratura, ma costanti rimangono alcuni nessi principali. Da un lato c’è la malattia come punizione misteriosa che genera scrittura nella ricerca della colpa che l’ha provocata, e cioè di un senso (è il modello di Giobbe e della teodicea); dall’altro la malattia si pone come la fine del senso e della scrittura, figura del limite necessario del discorso su di sé o sul mondo. Certamente varia il protocollo adottato (profezia/poesia, racconto auto/biografico o finzione romanzesca) conformemente a un percorso che, dall’antichità a oggi, porta prima a una progressiva moralizzazione del tema in età cristiana, e poi a una sua secolarizzazione con l’illuminismo; varia però anche il tono, che accanto alle note liriche, tragiche e melodrammatiche dell’età moderna, ne vede affermarsi di nuove, paradossalmente umoristiche e autoironiche, nella contemporaneità. È su questo filone autoironico della narrazione del malato su se stesso che vorrei soffermarmi, confrontando due testi stilisticamente molto diversi come The Anatomy Lesson di Philip Roth (1983) e Il male oscuro di Giuseppe Berto (1964): due romanzi al tempo stesso lontanissimi per contesto e presupposti, ma sorprendentemente affini per temi e gestione retorica; scritti da due autori che appartengono a due generazioni diverse e diversamente fanno i conti con modelli della tradizione modernista. Infatti, l’adozione della distanza ironica permette di realizzare una sintesi fra racconto oggettivo e soggettivo, e perciò di elaborare una topica del discorso buffo sulla malattia che partendo dall’ipocondria più o meno giustificata del malato arriva a descrivere un intero mondo dissestato (fatto di padri anaffettivi e punitivi, medici narcisisti e ciarlatani, mogli sollecite e infedeli, meschinità sociali); un mondo di malati nel corpo o nella mente che – a tratti e con diverse modalità – richiama quel rovesciamento carnevalesco del rapporto salute/malattia, ragione/follia già esplorato da Molière, Pope, Goldoni e prima ancora dalla trattatistica e dalla letteratura del Rinascimento. Se infatti Berto e Roth mettono certamente a frutto le suggestioni di precedenti immediati (nel caso del Male oscuro, ad esempio, Gozzano, Gadda, Svevo e Pirandello), è vero anche che i loro romanzi possono essere letti come esiti contemporanei e diversissimi di una torsione autoironica del discorso del malato e/o del folle su se stesso che si determina a partire dall’età rinascimentale, e cioè da Erasmo, Ariosto e Cervantes.
2021
9788861102224
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11390/1220994
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