Il mistero di "Ermione" sta nel suo insuccesso, ovvero nel silenzio che ha avvolto le poche rappresentazioni del marzo/aprile 1819 al San Carlo di Napoli, e nell’oblio totale fino alla riesumazione dei nostri anni: mistero perché siamo di fronte ad un capolavoro che, dal punto di vista drammaturgico-musicale, non sfigura al confronto con le più fortunate sorelle napoletane, come ha sottolineato la critica da Radiciotti a Rognoni a Gossett a Quattrocchi, né presenta problemi vocali e di messa in scena superiori a quelli delle altre opere napoletane, ostacoli che possano averne impedito la circolazione. Le fonti documentarie sono scarsissime, dunque possiamo solo provare a formulare delle ipotesi. Rossini scrisse alla madre durante la composizione che il soggetto era «troppo tragico». Tuttavia, anche "Otello" è tragico, e però già nel 1819 veniva rappresentato per ogni dove. Il problema di "Ermione" è che alla fine non solo, per così dire, 'ci scappa il morto', ma è l'identità del morto: un re (Pirro), e non una semplice ragazza veneziana. Considerato che siamo negli anni della Restaurazione seguita alle burrasche rivoluzionarie e napoleoniche, e considerato il ben noto meccanismo di rispecchiamento tra palco (reale) e palcoscenico, doveva essere semplicemente un argomento tabù: invano cercheremmo un altro regicidio nelle opere napoletane (e non solo napoletane) dell’epoca, di Rossini come di chiunque altro. Si può ipotizzare che Rossini abbia voluto mantenersi il più vicino possibile al finale poeticamente meraviglioso, per quanto forse politicamente scorretto, dell’"Andromaque" di Racine, piuttosto che fare il sovversivo. Avendo subito compreso che l’opera non avrebbe avuto possibilità di circolazione, egli avrà pensato di riciclarla in altra veste, ovvero attingerne per autoimprestiti: è quello che fece poche settimane dopo in occasione di "Eduardo e Cristina" a Venezia.

Il mistero di "Ermione" e il tabù del regicidio

LAMACCHIA, Saverio
2016-01-01

Abstract

Il mistero di "Ermione" sta nel suo insuccesso, ovvero nel silenzio che ha avvolto le poche rappresentazioni del marzo/aprile 1819 al San Carlo di Napoli, e nell’oblio totale fino alla riesumazione dei nostri anni: mistero perché siamo di fronte ad un capolavoro che, dal punto di vista drammaturgico-musicale, non sfigura al confronto con le più fortunate sorelle napoletane, come ha sottolineato la critica da Radiciotti a Rognoni a Gossett a Quattrocchi, né presenta problemi vocali e di messa in scena superiori a quelli delle altre opere napoletane, ostacoli che possano averne impedito la circolazione. Le fonti documentarie sono scarsissime, dunque possiamo solo provare a formulare delle ipotesi. Rossini scrisse alla madre durante la composizione che il soggetto era «troppo tragico». Tuttavia, anche "Otello" è tragico, e però già nel 1819 veniva rappresentato per ogni dove. Il problema di "Ermione" è che alla fine non solo, per così dire, 'ci scappa il morto', ma è l'identità del morto: un re (Pirro), e non una semplice ragazza veneziana. Considerato che siamo negli anni della Restaurazione seguita alle burrasche rivoluzionarie e napoleoniche, e considerato il ben noto meccanismo di rispecchiamento tra palco (reale) e palcoscenico, doveva essere semplicemente un argomento tabù: invano cercheremmo un altro regicidio nelle opere napoletane (e non solo napoletane) dell’epoca, di Rossini come di chiunque altro. Si può ipotizzare che Rossini abbia voluto mantenersi il più vicino possibile al finale poeticamente meraviglioso, per quanto forse politicamente scorretto, dell’"Andromaque" di Racine, piuttosto che fare il sovversivo. Avendo subito compreso che l’opera non avrebbe avuto possibilità di circolazione, egli avrà pensato di riciclarla in altra veste, ovvero attingerne per autoimprestiti: è quello che fece poche settimane dopo in occasione di "Eduardo e Cristina" a Venezia.
2016
978-88-565-9998-5
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