Tra i non luoghi della storia dell’architettura bisogna senza dubbio ascrivere tutti quegli spazi della figurazione nati per assolvere la funzione di scenografia cinematografica. Realizzati fino a poco tempo fa utilizzando stratagemmi operativi di indubbia creatività tecnica – quali ad esempio: sovrapposizioni tra personaggi reali e maquettes in scala ridotta; particolari scorci e vedute di città reali riproposte con singolari montaggi in modo da renderle irriconoscibili; riproposizioni di interi quartieri immaginari in scala reale – e sostituiti quasi del tutto grazie alle tecnologie digitali, essi costituiscono un interessante repertorio di informazioni sulle “città della finzione”. Le “everytowns”, come vengono chiamate in alcune produzioni, nascono soprattutto per catturare l’attenzione dello spettatore, provocandone, come avviene per il flâneur descritto nei Passages da Benjamin, lo smarrimento, ma assurgendo, di frequente, al ruolo di protagonista. Pur essendo notevole la quantità di casi di studio, è possibile tentare di costruire una sommaria classificazione che possa servire a comprendere meglio l’influenza che l’architettura reale ha avuto a partire dalla percezione delle costruzioni effimere offerte dalla cinematografia nel corso degli anni. Da una lato, infatti, ci sono i contesti puramente immaginari – che prendono avvio dai primissimi Voyages di Georges Méliés della fine del XIX secolo, e si manifestano nella rappresentazione di fantastici paesaggi soprattutto extraterreni – si pensi a Aelita, all’Alphaville di Godard, all’Odissea kubrickiana, a Solaris di Tarkovskij, al viaggio all’interno di un elaboratore in Tron – che hanno ideale riferimento nelle rappresentazioni fittizie di ambienti e spazi privi di referenziazione geografica, come in Metropolis di Fritz Lang, in Things to come di Cameron Menzies, in Brazil di Gillian, solo per fare alcuni esempi. Dall’altro, vi sono le reinterpretazioni di città – si pensi alla New York immaginata da David Butler in Just Imagine, la Los Angeles irriconoscibile di Ridley Scott per Blade Runner, le molte città di Wenders, il quale introduce spesso l’elemento della virtualità onirica (si pensi ad alcuni paesaggi metropolitani di Fino alla fine del mondo), che poi verrà implementato nella rappresentazione di alcune città fortemente antropizzate, come in Matrix e nel recente Inception. La ricerca qui presentata, sviluppata presso la Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Trieste, ha analizzato alcuni dei più significativi casi della storia della cinematografia, con l’obiettivo di comprendere l’evoluzione dei nowhere spaces della rappresentazione, anche alla luce dei mutamenti tecnologici avvenuti, dall’analogico al digitale.
Form Follows Fiction. La rappresentazione delle "everytowns" nella cinematografia visionaria
sdegno
Writing – Original Draft Preparation
2013-01-01
Abstract
Tra i non luoghi della storia dell’architettura bisogna senza dubbio ascrivere tutti quegli spazi della figurazione nati per assolvere la funzione di scenografia cinematografica. Realizzati fino a poco tempo fa utilizzando stratagemmi operativi di indubbia creatività tecnica – quali ad esempio: sovrapposizioni tra personaggi reali e maquettes in scala ridotta; particolari scorci e vedute di città reali riproposte con singolari montaggi in modo da renderle irriconoscibili; riproposizioni di interi quartieri immaginari in scala reale – e sostituiti quasi del tutto grazie alle tecnologie digitali, essi costituiscono un interessante repertorio di informazioni sulle “città della finzione”. Le “everytowns”, come vengono chiamate in alcune produzioni, nascono soprattutto per catturare l’attenzione dello spettatore, provocandone, come avviene per il flâneur descritto nei Passages da Benjamin, lo smarrimento, ma assurgendo, di frequente, al ruolo di protagonista. Pur essendo notevole la quantità di casi di studio, è possibile tentare di costruire una sommaria classificazione che possa servire a comprendere meglio l’influenza che l’architettura reale ha avuto a partire dalla percezione delle costruzioni effimere offerte dalla cinematografia nel corso degli anni. Da una lato, infatti, ci sono i contesti puramente immaginari – che prendono avvio dai primissimi Voyages di Georges Méliés della fine del XIX secolo, e si manifestano nella rappresentazione di fantastici paesaggi soprattutto extraterreni – si pensi a Aelita, all’Alphaville di Godard, all’Odissea kubrickiana, a Solaris di Tarkovskij, al viaggio all’interno di un elaboratore in Tron – che hanno ideale riferimento nelle rappresentazioni fittizie di ambienti e spazi privi di referenziazione geografica, come in Metropolis di Fritz Lang, in Things to come di Cameron Menzies, in Brazil di Gillian, solo per fare alcuni esempi. Dall’altro, vi sono le reinterpretazioni di città – si pensi alla New York immaginata da David Butler in Just Imagine, la Los Angeles irriconoscibile di Ridley Scott per Blade Runner, le molte città di Wenders, il quale introduce spesso l’elemento della virtualità onirica (si pensi ad alcuni paesaggi metropolitani di Fino alla fine del mondo), che poi verrà implementato nella rappresentazione di alcune città fortemente antropizzate, come in Matrix e nel recente Inception. La ricerca qui presentata, sviluppata presso la Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Trieste, ha analizzato alcuni dei più significativi casi della storia della cinematografia, con l’obiettivo di comprendere l’evoluzione dei nowhere spaces della rappresentazione, anche alla luce dei mutamenti tecnologici avvenuti, dall’analogico al digitale.File | Dimensione | Formato | |
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