In fatto di ricostruzioni post-terremoto, lo Stato italiano non sembra voler uscire dalla vecchia logica di un potere centrale che interviene volta per volta, sulla base delle sensibilità e degli interessi del momento e per dilatare spesso all’infinito “economie da ricostruzione”. Non è propriamente una logica democratica e repubblicana. E’ piuttosto la logica dei principi e dei sovrani di antico regime ma quelli, almeno, quando volevano, le ricostruzioni le facevano davvero. Nel 1693, infatti, il principe Carlo Maria Carafa, presidente del Parlamento di Sicilia, all’epoca vicereame del Regno di Spagna, ricostruì, con il nome di Grammichele, l’antica città di Occhiolà distrutta da un terremoto assieme ad altri centri della Val di Noto nella Sicilia Orientale. E’ una ricostruzione “dall’alto” che segue i criteri formali della “città ideale” rinascimentale. Nel 1755 un terremoto di magnitudine inaudita distrusse Lisbona. Il primo ministro dell’Impero di Portogallo, il marchese di Pombal, incaricato della ricostruzione, portò ad una ricostruzione di grande importanza storica perché, a Lisbona, vengono, per così dire, sperimentati a fondo i principali modelli formali e funzionali -e di moltiplicazione della rendita urbana-, della moderna città europea mercantilista e capitalista. La ricostruzione di Messina, dopo il terremoto del 1908, inaugura invece la storia tutta italiana delle ricostruzioni infinite dove il terremoto diventa l’occasione per la creazione di uno stato permanente di emergenza dilatato appositamente per incrementare un’economia della ricostruzione (Saitta, 2013). Forse per avere un modello di ricostruzione “civile” che “chiuda” con la “modernità” imposta da principi e imperatori ed eviti la deriva italica delle ricostruzioni infinite, bisogna arrivare alla ricostruzione del Friuli, dopo il terremoto del 1976, ma che rimane, tutto sommato, un unicum isolato. Il paper si concentra dunque su questo ritardo storico dello Stato italiano e sulla assenza di strumenti di legge, di politiche sistematiche e di modelli di intervento atti ad indirizzare le ricostruzioni e con esse diritti e doveri dello Stato e dei cittadini in un ridefinito patto fondamentale per una vita sicura e sostenibile nei territori disastrati o a rischio di disastro.

Processo alle pianificazioni nelle ricostruzioni post-terremoto. Casi nel bacino del Mediterraneo e nell'Europa Meridionale

Sandro Fabbro
2018-01-01

Abstract

In fatto di ricostruzioni post-terremoto, lo Stato italiano non sembra voler uscire dalla vecchia logica di un potere centrale che interviene volta per volta, sulla base delle sensibilità e degli interessi del momento e per dilatare spesso all’infinito “economie da ricostruzione”. Non è propriamente una logica democratica e repubblicana. E’ piuttosto la logica dei principi e dei sovrani di antico regime ma quelli, almeno, quando volevano, le ricostruzioni le facevano davvero. Nel 1693, infatti, il principe Carlo Maria Carafa, presidente del Parlamento di Sicilia, all’epoca vicereame del Regno di Spagna, ricostruì, con il nome di Grammichele, l’antica città di Occhiolà distrutta da un terremoto assieme ad altri centri della Val di Noto nella Sicilia Orientale. E’ una ricostruzione “dall’alto” che segue i criteri formali della “città ideale” rinascimentale. Nel 1755 un terremoto di magnitudine inaudita distrusse Lisbona. Il primo ministro dell’Impero di Portogallo, il marchese di Pombal, incaricato della ricostruzione, portò ad una ricostruzione di grande importanza storica perché, a Lisbona, vengono, per così dire, sperimentati a fondo i principali modelli formali e funzionali -e di moltiplicazione della rendita urbana-, della moderna città europea mercantilista e capitalista. La ricostruzione di Messina, dopo il terremoto del 1908, inaugura invece la storia tutta italiana delle ricostruzioni infinite dove il terremoto diventa l’occasione per la creazione di uno stato permanente di emergenza dilatato appositamente per incrementare un’economia della ricostruzione (Saitta, 2013). Forse per avere un modello di ricostruzione “civile” che “chiuda” con la “modernità” imposta da principi e imperatori ed eviti la deriva italica delle ricostruzioni infinite, bisogna arrivare alla ricostruzione del Friuli, dopo il terremoto del 1976, ma che rimane, tutto sommato, un unicum isolato. Il paper si concentra dunque su questo ritardo storico dello Stato italiano e sulla assenza di strumenti di legge, di politiche sistematiche e di modelli di intervento atti ad indirizzare le ricostruzioni e con esse diritti e doveri dello Stato e dei cittadini in un ridefinito patto fondamentale per una vita sicura e sostenibile nei territori disastrati o a rischio di disastro.
2018
978-88-7603-183-0
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