Il Modello Friuli di ricostruzione fisica è essenzialmente: 1. L’applicazione sistematica di nuove tecniche per la riparazione antisismica di edifici in muratura; 2. un principio di ricostruzione degli insediamenti definitivi (“dov’era e com’era”) reso possibile anche da quelle tecniche; 3. un “patto”, tra stato, regione ed enti locali, che articola i poteri in senso sussidiario. Il dispositivo ha consentito una ricostruzione in circa dieci anni senza spechi. Le tecniche di riparazione delle murature storiche non erano ancora state sviluppate dall’ingegneria strutturale dell’epoca che preferiva di gran lunga ricostruire ex-novo gli edifici distrutti ed anche quelli seriamente lesionati. La sperimentazione di nuove tecniche di riparazione antisismica avviene in Italia per la prima volta in Friuli (sulla scorta di precedenti esperienze condotte a seguito del terremoto di Skopie in Macedonia, nel 1963). Le nuove tecniche di riparazione consentono anche di evitare di trasferire gli insediamenti in nuovi siti. L’introduzione di queste nuove tecniche implica una rottura con il mondo accademico, dell’ingegneria civile e dell’urbanistica, dell’epoca che propendeva per la realizzazione di nuovi edifici e nuovo insediamenti (alle volte in sito, come a Longarone 1963, altre in altri siti, come a Gibellina, 1998) Nel modello Friuli, il modello di ricostruzione fisica diventa quello del “dov’era e com’era” anche perché si rompe definitivamente la tirannia del “moderno”. In questo modello vanno distinti più livelli di “spazio pubblico”: se lo spazio pubblico è quello costituito dalle zone di “proprietà pubblica” degli insediamenti pre-terremoto, questo è stato ripristinato seguendo l’assetto preesistente ed eventualmente ampliandolo (strade, piazze, slarghi, zone dei servizi pubblici ecc.). Se lo “spazio pubblico” è quello dell’azione pubblica (regolativo e di pianificazione) allora questo è stato uno spazio, come abbiamo detto, condiviso in senso sussidiario e “pattizio”, tra diversi livelli di potere (Stato, Regione e Comuni). Se lo “spazio pubblico” è quello “sociale” alla Lefevre, allora entriamo in un discorso complesso che riguarda non solo l’interazione tra i poteri pubblici ma anche l’interazione tra questi, le comunità locali (partecipi del processo di ricostruzione, fin dai primi giorni dopo la catastrofe, con i Comitati delle tendopoli) e le famiglie (coinvolte nel processo in termini di partecipazione alla spesa complessiva della ricostruzione o riparazione dell’immobile distrutto o lesionato). In questo caso, però, non si può parlare di spazio pubblico in senso stretto ma, piuttosto, di costruzione collettiva dello spazio sociale. C’è un principio ancora più a monte dei tre che abbiamo detto? Sì! Perché il “dov’era e com’era” non è solo un modello urbanistico o architettonico (come tale sarebbe forse troppo o troppo poco) è anche un principio ecologico primario (da OIKOS=CASA). Il motore primo sta, cioè, nell’attaccamento alla casa (e, quindi, al borgo, al paese), a quell’unità minima, quel microcosmo, che è la “casa”, che comprende il tutto (οίκος) e la complessità del tutto. La rottura con la tirannia del moderno favorisce la riscoperta del principio ecologico che diventa anche principio giuridico per la formulazione di appositi quadri normativi perché basa le ricostruzioni, al contempo, sulla sicurezza fisica degli edifici ma anche sulla “rassicurazione”, alle popolazioni sinistrate, che deriva dalla riproposizione di un habitat locale che già si è sperimentato e di cui ci si fida. Il MF è, in ultima analisi, “una visione del mondo” centrata sul microcosmo della casa. Da cui deriva il principio giuridico per cui le ricostruzioni devono essere il più possibile endogene ed autocentrate.

Modello Friuli. Strumenti urbanistici e ricostruzione insediativa dopo il terremoto del 1976

Sandro Fabbro
2019-01-01

Abstract

Il Modello Friuli di ricostruzione fisica è essenzialmente: 1. L’applicazione sistematica di nuove tecniche per la riparazione antisismica di edifici in muratura; 2. un principio di ricostruzione degli insediamenti definitivi (“dov’era e com’era”) reso possibile anche da quelle tecniche; 3. un “patto”, tra stato, regione ed enti locali, che articola i poteri in senso sussidiario. Il dispositivo ha consentito una ricostruzione in circa dieci anni senza spechi. Le tecniche di riparazione delle murature storiche non erano ancora state sviluppate dall’ingegneria strutturale dell’epoca che preferiva di gran lunga ricostruire ex-novo gli edifici distrutti ed anche quelli seriamente lesionati. La sperimentazione di nuove tecniche di riparazione antisismica avviene in Italia per la prima volta in Friuli (sulla scorta di precedenti esperienze condotte a seguito del terremoto di Skopie in Macedonia, nel 1963). Le nuove tecniche di riparazione consentono anche di evitare di trasferire gli insediamenti in nuovi siti. L’introduzione di queste nuove tecniche implica una rottura con il mondo accademico, dell’ingegneria civile e dell’urbanistica, dell’epoca che propendeva per la realizzazione di nuovi edifici e nuovo insediamenti (alle volte in sito, come a Longarone 1963, altre in altri siti, come a Gibellina, 1998) Nel modello Friuli, il modello di ricostruzione fisica diventa quello del “dov’era e com’era” anche perché si rompe definitivamente la tirannia del “moderno”. In questo modello vanno distinti più livelli di “spazio pubblico”: se lo spazio pubblico è quello costituito dalle zone di “proprietà pubblica” degli insediamenti pre-terremoto, questo è stato ripristinato seguendo l’assetto preesistente ed eventualmente ampliandolo (strade, piazze, slarghi, zone dei servizi pubblici ecc.). Se lo “spazio pubblico” è quello dell’azione pubblica (regolativo e di pianificazione) allora questo è stato uno spazio, come abbiamo detto, condiviso in senso sussidiario e “pattizio”, tra diversi livelli di potere (Stato, Regione e Comuni). Se lo “spazio pubblico” è quello “sociale” alla Lefevre, allora entriamo in un discorso complesso che riguarda non solo l’interazione tra i poteri pubblici ma anche l’interazione tra questi, le comunità locali (partecipi del processo di ricostruzione, fin dai primi giorni dopo la catastrofe, con i Comitati delle tendopoli) e le famiglie (coinvolte nel processo in termini di partecipazione alla spesa complessiva della ricostruzione o riparazione dell’immobile distrutto o lesionato). In questo caso, però, non si può parlare di spazio pubblico in senso stretto ma, piuttosto, di costruzione collettiva dello spazio sociale. C’è un principio ancora più a monte dei tre che abbiamo detto? Sì! Perché il “dov’era e com’era” non è solo un modello urbanistico o architettonico (come tale sarebbe forse troppo o troppo poco) è anche un principio ecologico primario (da OIKOS=CASA). Il motore primo sta, cioè, nell’attaccamento alla casa (e, quindi, al borgo, al paese), a quell’unità minima, quel microcosmo, che è la “casa”, che comprende il tutto (οίκος) e la complessità del tutto. La rottura con la tirannia del moderno favorisce la riscoperta del principio ecologico che diventa anche principio giuridico per la formulazione di appositi quadri normativi perché basa le ricostruzioni, al contempo, sulla sicurezza fisica degli edifici ma anche sulla “rassicurazione”, alle popolazioni sinistrate, che deriva dalla riproposizione di un habitat locale che già si è sperimentato e di cui ci si fida. Il MF è, in ultima analisi, “una visione del mondo” centrata sul microcosmo della casa. Da cui deriva il principio giuridico per cui le ricostruzioni devono essere il più possibile endogene ed autocentrate.
2019
978-88-3280-083-8
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11390/1169453
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