Diffidando di un certo volenteroso irenismo quanto a (e-/im-)migrazione, la comunicazione intende soffermarsi sul momento negativo dello scontro e dell’affronto, piuttosto che su quello del confronto, fra culture e civiltà (ma anche fra uomo e ambiente), specialmente là dove questi risultino di peso interlocutorio drammaticamente asimmetrico. A questo scopo si propongono alcune riflessioni sull’opera prima del Nobel sudafricano J.M. Coetzee, che si compone di due novelle accomunate dal tema dell’aggressività e della distruttività dell’espansionismo prima colonialista e poi imperialista. Si limiterà l’analisi alla seconda novella, The Narrative of Jacobus Coetzee, racconto autodiegetico del viaggio del pioniere boero eponimo nell’entroterra sudafricano del 1760, cui segue la relazione di una seconda spedizione culminante nello sterminio della tribù ottentotta dei Grandi Namaqua. La narrazione in prima persona permette di seguire dall’interno, in un ideale recupero della “gorgeous eloquence” del Kurtz conradiano, articolazione e sviluppo del processo di autolegittimazione delle politiche (e)migratorie prevaricatrici dell’Occidente, e dunque la messa a nudo del micidiale ordigno ideologico sotteso al suo modello di sviluppo economico: una volta sollevata la coperta troppo corta della retorica della civilizzazione, emerge l’impasto di autorazzizzazione (basata sul primato tecnologico e sulla paura del contagio) con il principio di crescita (o di crescita apparente, dato che l’accumulo, ma soprattutto lo spreco, delle risorse disponibili comportano una desertificazione progressiva su scala planetaria). La denuncia della migrazione di rapina da parte degli stessi occidentali si struttura in una dolente tradizione almeno a partire dalla Distruzione delle Indie (1552) di Bartolomè De Las Casas e, nella letteratura inglese, raggiunge l’apice con la demistificazione del Progresso e dell’Efficienza operata da Joseph Conrad in Heart of Darkness, cui Dusklands certamente allude; problemi che rimangono di stretta attualità nella migrazione contemporanea quanto meno delle forme di sfruttamento e dei meccanismi di esclusione, se non ancora delle persone fisiche. Questioni note, che Coetzee è però capace di affrontare in modo sperimentale e dirompente, imponendo al lettore il punto di vista del migrante prometeico e trionfante che riporta ogni dettaglio delle sevizie e della carne-ficina dei nativi (completo di descrizione del relativo ammasso di cadaveri, figura del ritorno del rimosso nelle “belle lettere”) e che riduce la wilderness a una successione di lotti recintati (topos della trasformazione del deserto in giardino). L’intervento si propone di illustrare come in Dusklands questo modello di migrazione dall’irresistibile impatto ambientale sia significato principalmente nella lingua delle relazioni spaziali, capace di modellizzare contenuti etico-ideologici.
«Il modello di spazio artistico in Dusklands (1974) di J.M. Coetzee»
FIORELLA L
2009-01-01
Abstract
Diffidando di un certo volenteroso irenismo quanto a (e-/im-)migrazione, la comunicazione intende soffermarsi sul momento negativo dello scontro e dell’affronto, piuttosto che su quello del confronto, fra culture e civiltà (ma anche fra uomo e ambiente), specialmente là dove questi risultino di peso interlocutorio drammaticamente asimmetrico. A questo scopo si propongono alcune riflessioni sull’opera prima del Nobel sudafricano J.M. Coetzee, che si compone di due novelle accomunate dal tema dell’aggressività e della distruttività dell’espansionismo prima colonialista e poi imperialista. Si limiterà l’analisi alla seconda novella, The Narrative of Jacobus Coetzee, racconto autodiegetico del viaggio del pioniere boero eponimo nell’entroterra sudafricano del 1760, cui segue la relazione di una seconda spedizione culminante nello sterminio della tribù ottentotta dei Grandi Namaqua. La narrazione in prima persona permette di seguire dall’interno, in un ideale recupero della “gorgeous eloquence” del Kurtz conradiano, articolazione e sviluppo del processo di autolegittimazione delle politiche (e)migratorie prevaricatrici dell’Occidente, e dunque la messa a nudo del micidiale ordigno ideologico sotteso al suo modello di sviluppo economico: una volta sollevata la coperta troppo corta della retorica della civilizzazione, emerge l’impasto di autorazzizzazione (basata sul primato tecnologico e sulla paura del contagio) con il principio di crescita (o di crescita apparente, dato che l’accumulo, ma soprattutto lo spreco, delle risorse disponibili comportano una desertificazione progressiva su scala planetaria). La denuncia della migrazione di rapina da parte degli stessi occidentali si struttura in una dolente tradizione almeno a partire dalla Distruzione delle Indie (1552) di Bartolomè De Las Casas e, nella letteratura inglese, raggiunge l’apice con la demistificazione del Progresso e dell’Efficienza operata da Joseph Conrad in Heart of Darkness, cui Dusklands certamente allude; problemi che rimangono di stretta attualità nella migrazione contemporanea quanto meno delle forme di sfruttamento e dei meccanismi di esclusione, se non ancora delle persone fisiche. Questioni note, che Coetzee è però capace di affrontare in modo sperimentale e dirompente, imponendo al lettore il punto di vista del migrante prometeico e trionfante che riporta ogni dettaglio delle sevizie e della carne-ficina dei nativi (completo di descrizione del relativo ammasso di cadaveri, figura del ritorno del rimosso nelle “belle lettere”) e che riduce la wilderness a una successione di lotti recintati (topos della trasformazione del deserto in giardino). L’intervento si propone di illustrare come in Dusklands questo modello di migrazione dall’irresistibile impatto ambientale sia significato principalmente nella lingua delle relazioni spaziali, capace di modellizzare contenuti etico-ideologici.File | Dimensione | Formato | |
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