La riflessione dedicata alle dimensioni spazio-temporali dei lavori negli anni Venti del nuovo Millennio deve cogliere trasformazioni dell’organizzazione, del lavoro e della società profonde e ambivalenti, emerse da decenni e in via di piena maturazione. Da qui, la scelta di ri-leggere, oggi, quattro relazioni di largo respiro (di Franco Carinci, Raffaele De Luca Tamajo, Domenico Garofalo e Michele Tiraboschi) discusse nell’ambito dei convegni AIDLaSS, al fine di delineare i profili introduttivi del mio contributo. Con tale spinta, mi occupo dell’analisi del rapporto individuale di lavoro, nel (solo) settore privato, privilegiando un approccio giuridico, pur nella consapevolezza della fecondità di quello interdisciplinare. Data la complessità normativa del tema – specie se declinato in maniera coordinata e, quando possibile, unitaria – l’indagine è articolata in tre fasi distinte, ma incrociate e intrecciate che ho denominato descrizione – verificazione – qualificazione. La prima, di descrizione, analizza la disciplina attuale delle fattispecie “destrutturate”, cioè dei sotto-tipi di lavoro o delle modalità di svolgimento della prestazione di lavoro subordinato che si discostano dal tipo/modello standard, sotto il profilo del tempo e del luogo di lavoro. L’indagine spazia dall’arcaico lavoro a domicilio, al telelavoro e ai modelli di lavoro agile, al lavoro in trasferta o dei trasfertisti, al tempo parziale, al lavoro intermittente, al lavoro tramite piattaforme digitali (ed eventualmente nel metaverso), passando per l’apprendistato duale. La descrizione mette in luce una declinazione della “destrutturazione” di tempo e luogo di lavoro davvero molto articolata, il cui file rouge è la specializzazione disciplinare e i cui riflessi, sul piano qualificatorio, tracciano la strada da percorrere nei prossimi anni. Emerge nella realtà sociale l’allentamento della etero-direzione, criterio essenziale identificativo della subordinazione. Nel lavoro destrutturato, il potere direttivo – inteso come assoggettamento alle pregnanti e pressanti direttive del datore di lavoro – sembra scolorire dinanzi all’accentuazione del potere di organizzare le differenti modalità esplicative della prestazione di lavoro, con una iper-valorizzazione dell’utilità prodotta dalla prestazione di lavoro. Il complessivo fenomeno delle attività svincolate da rigide forme di coordinamento spazio e/o temporale, contrasta con la caratteristica regolazione “Del lavoro nell’impresa” tipica dei primi ottant’anni dell’esperienza codicistica, facendo emergere un approccio regolativo articolato, con una dilatazione dell’ambito disciplinare occupato dalla nostra materia. La seconda fase, di verificazione, è interamente dedicata al riflesso di siffatta destrutturazione spazio-temporale su entrambe le parti del rapporto obbligatorio, datore e lavoratore, in aderenza al profilo assegnato alla mia riflessione. L’indagine alimenta l’interrogativo se sia possibile sostenere che le forme destrutturate di lavoro siano ancora l’eccezione rispetto alla regola del contratto standard e, come tali, destinatarie di una disciplina speciale rispetto a quella generale; con un surplus regolativo che si fa fatica a contenere (per esempio, il lavoro su piattaforme). La verifica evidenzia la diversa torsione delle contrapposte obbligazioni contrattuali, con l’insorgere di nuovi limiti quanto alla posizione del datore di lavoro – significativamente testimoniati, oltre il mero obbligo informativo, dal recente decreto sulla “trasparenza”, n. 104/2022 –, e di una nuova connotazione degli obblighi che gravano sul prestatore di lavoro, figlia della sua “autonomizzazione”. La sensazione che si ha è quella di un avvicinamento delle fattispecie tipiche della subordinazione e dell’autonomia, che utilizzano la fattispecie “di mezzo”, la parasubordinazione, come ponte sul quale l’una corre verso l’altra: scontro o incontro? Questo è il dilemma. Da qui, l’ultima fase di indagine, di qualificazione, dato che è legittimo porsi l’interrogativo se, e – in caso affermativo – in che misura, permanga l’idoneità delle fattispecie codicistiche a regolare i nuovi modi di lavorare e di produrre. Per tentare di dare risposta all’interrogativo, mi sono, in primis, issata sulle “spalle larghe” dei Maestri (Carinci, D’Antona, Ghera, Napoli, Persiani, Tosi e Treu), rileggendone gli scritti e riproducendone il pensiero per guardare oltre. All’esito di questo percorso e del faticoso lavoro di studio della copiosa dottrina, mi sento di poter affermare, da un lato, che la destrutturazione del tempo e del luogo di lavoro (nelle molteplici forme di lavoro non standard, evocate dalla direttiva UE 2019/1152) sta producendo una “detipizzazione” della fattispecie, basti considerare che il contratto di apprendistato professionalizzante (contratto speciale, per eccellenza) è oggi il più tipico (o normale) tra quelli riconducibili al lavoro subordinato destrutturato – nelle varie manifestazioni esaminate – dato che è refrattario a ogni disarticolazione, in quanto la finalità formativa richiede un’attività in presenza e a tempo pieno. Dall’altro lato, la destrutturazione sta mettendo fortemente in crisi la distinzione “lavoro subordinato/lavoro parasubordinato”. Ne consegue che, in funzione ricostruttiva della fattispecie, da molti auspicata, ancorché approdare al tertium genus, si va verso una concezione binaria “lavoro etero-organizzato versus lavoro auto-organizzato” ancorché continuativo, come emerge in modo inconfutabile dal D.L.vo n. 104/2022. Tale decreto prevede, infatti, l’applicazione degli obblighi di informazione e le tutele contro l’imprevedibilità del tempo e del luogo di lavoro indifferentemente al lavoro subordinato e a quello parasubordinato, entrambi “etero-organizzati”, lasciando completamente fuori, in quanto “auto-organizzato”, il lavoro autonomo puro. L’etero-organizzazione finisce, quindi, con lo sconfinare nella contigua area della parasubordinazione, abbattendo il fragile steccato eretto dal legislatore del 2015 (con l’art. 2, c. 1, D.L.vo n. 81), figlio o frutto dell’idiosincrasia qualificatoria che caratterizza la più recente produzione normativa: a questo proposito si v. il citato art. 2, c. 1, ma anche il discusso D.L. n. 101/2019 sui rider e, finanche, la reiterata disciplina dei tirocini di formazione e orientamento (non a caso, etichettati come norme di “disciplina”), preoccupati solo di garantire tutele, piuttosto che fornire qualificazioni tipologiche, con gli inevitabili problemi applicativi dei quali si è detto. Di tale evoluzione occorre tenere conto, per cogliere quanto sta accadendo, in particolare, nel sistema di sicurezza sociale, sempre meno idoneo a garantire le promesse della Carta fondamentale per i lavoratori precari e discontinui rispetto a cui si richiede una decisa opera di manutenzione, come auspico in chiusura della mia riflessione.
Le dimensioni spazio-temporali dei lavori: il rapporto individuale di lavoro
M. Brollo
2024-01-01
Abstract
La riflessione dedicata alle dimensioni spazio-temporali dei lavori negli anni Venti del nuovo Millennio deve cogliere trasformazioni dell’organizzazione, del lavoro e della società profonde e ambivalenti, emerse da decenni e in via di piena maturazione. Da qui, la scelta di ri-leggere, oggi, quattro relazioni di largo respiro (di Franco Carinci, Raffaele De Luca Tamajo, Domenico Garofalo e Michele Tiraboschi) discusse nell’ambito dei convegni AIDLaSS, al fine di delineare i profili introduttivi del mio contributo. Con tale spinta, mi occupo dell’analisi del rapporto individuale di lavoro, nel (solo) settore privato, privilegiando un approccio giuridico, pur nella consapevolezza della fecondità di quello interdisciplinare. Data la complessità normativa del tema – specie se declinato in maniera coordinata e, quando possibile, unitaria – l’indagine è articolata in tre fasi distinte, ma incrociate e intrecciate che ho denominato descrizione – verificazione – qualificazione. La prima, di descrizione, analizza la disciplina attuale delle fattispecie “destrutturate”, cioè dei sotto-tipi di lavoro o delle modalità di svolgimento della prestazione di lavoro subordinato che si discostano dal tipo/modello standard, sotto il profilo del tempo e del luogo di lavoro. L’indagine spazia dall’arcaico lavoro a domicilio, al telelavoro e ai modelli di lavoro agile, al lavoro in trasferta o dei trasfertisti, al tempo parziale, al lavoro intermittente, al lavoro tramite piattaforme digitali (ed eventualmente nel metaverso), passando per l’apprendistato duale. La descrizione mette in luce una declinazione della “destrutturazione” di tempo e luogo di lavoro davvero molto articolata, il cui file rouge è la specializzazione disciplinare e i cui riflessi, sul piano qualificatorio, tracciano la strada da percorrere nei prossimi anni. Emerge nella realtà sociale l’allentamento della etero-direzione, criterio essenziale identificativo della subordinazione. Nel lavoro destrutturato, il potere direttivo – inteso come assoggettamento alle pregnanti e pressanti direttive del datore di lavoro – sembra scolorire dinanzi all’accentuazione del potere di organizzare le differenti modalità esplicative della prestazione di lavoro, con una iper-valorizzazione dell’utilità prodotta dalla prestazione di lavoro. Il complessivo fenomeno delle attività svincolate da rigide forme di coordinamento spazio e/o temporale, contrasta con la caratteristica regolazione “Del lavoro nell’impresa” tipica dei primi ottant’anni dell’esperienza codicistica, facendo emergere un approccio regolativo articolato, con una dilatazione dell’ambito disciplinare occupato dalla nostra materia. La seconda fase, di verificazione, è interamente dedicata al riflesso di siffatta destrutturazione spazio-temporale su entrambe le parti del rapporto obbligatorio, datore e lavoratore, in aderenza al profilo assegnato alla mia riflessione. L’indagine alimenta l’interrogativo se sia possibile sostenere che le forme destrutturate di lavoro siano ancora l’eccezione rispetto alla regola del contratto standard e, come tali, destinatarie di una disciplina speciale rispetto a quella generale; con un surplus regolativo che si fa fatica a contenere (per esempio, il lavoro su piattaforme). La verifica evidenzia la diversa torsione delle contrapposte obbligazioni contrattuali, con l’insorgere di nuovi limiti quanto alla posizione del datore di lavoro – significativamente testimoniati, oltre il mero obbligo informativo, dal recente decreto sulla “trasparenza”, n. 104/2022 –, e di una nuova connotazione degli obblighi che gravano sul prestatore di lavoro, figlia della sua “autonomizzazione”. La sensazione che si ha è quella di un avvicinamento delle fattispecie tipiche della subordinazione e dell’autonomia, che utilizzano la fattispecie “di mezzo”, la parasubordinazione, come ponte sul quale l’una corre verso l’altra: scontro o incontro? Questo è il dilemma. Da qui, l’ultima fase di indagine, di qualificazione, dato che è legittimo porsi l’interrogativo se, e – in caso affermativo – in che misura, permanga l’idoneità delle fattispecie codicistiche a regolare i nuovi modi di lavorare e di produrre. Per tentare di dare risposta all’interrogativo, mi sono, in primis, issata sulle “spalle larghe” dei Maestri (Carinci, D’Antona, Ghera, Napoli, Persiani, Tosi e Treu), rileggendone gli scritti e riproducendone il pensiero per guardare oltre. All’esito di questo percorso e del faticoso lavoro di studio della copiosa dottrina, mi sento di poter affermare, da un lato, che la destrutturazione del tempo e del luogo di lavoro (nelle molteplici forme di lavoro non standard, evocate dalla direttiva UE 2019/1152) sta producendo una “detipizzazione” della fattispecie, basti considerare che il contratto di apprendistato professionalizzante (contratto speciale, per eccellenza) è oggi il più tipico (o normale) tra quelli riconducibili al lavoro subordinato destrutturato – nelle varie manifestazioni esaminate – dato che è refrattario a ogni disarticolazione, in quanto la finalità formativa richiede un’attività in presenza e a tempo pieno. Dall’altro lato, la destrutturazione sta mettendo fortemente in crisi la distinzione “lavoro subordinato/lavoro parasubordinato”. Ne consegue che, in funzione ricostruttiva della fattispecie, da molti auspicata, ancorché approdare al tertium genus, si va verso una concezione binaria “lavoro etero-organizzato versus lavoro auto-organizzato” ancorché continuativo, come emerge in modo inconfutabile dal D.L.vo n. 104/2022. Tale decreto prevede, infatti, l’applicazione degli obblighi di informazione e le tutele contro l’imprevedibilità del tempo e del luogo di lavoro indifferentemente al lavoro subordinato e a quello parasubordinato, entrambi “etero-organizzati”, lasciando completamente fuori, in quanto “auto-organizzato”, il lavoro autonomo puro. L’etero-organizzazione finisce, quindi, con lo sconfinare nella contigua area della parasubordinazione, abbattendo il fragile steccato eretto dal legislatore del 2015 (con l’art. 2, c. 1, D.L.vo n. 81), figlio o frutto dell’idiosincrasia qualificatoria che caratterizza la più recente produzione normativa: a questo proposito si v. il citato art. 2, c. 1, ma anche il discusso D.L. n. 101/2019 sui rider e, finanche, la reiterata disciplina dei tirocini di formazione e orientamento (non a caso, etichettati come norme di “disciplina”), preoccupati solo di garantire tutele, piuttosto che fornire qualificazioni tipologiche, con gli inevitabili problemi applicativi dei quali si è detto. Di tale evoluzione occorre tenere conto, per cogliere quanto sta accadendo, in particolare, nel sistema di sicurezza sociale, sempre meno idoneo a garantire le promesse della Carta fondamentale per i lavoratori precari e discontinui rispetto a cui si richiede una decisa opera di manutenzione, come auspico in chiusura della mia riflessione.File | Dimensione | Formato | |
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