Fra i romanzi della fase sudafricana di J.M. Coetzee, e cioè quelli antecedenti all’attribuzione del Nobel e più marcatamente narrativi, The Master of Petersburg (1994) rimane uno dei testi meno studiati da una scholarship che si è invece esercitata copiosamente su tutti gli altri. La ragione va in parte cercata nel fatto che questo è l’unico romanzo in cui non vengono trattate tematiche postcoloniali, ponendo alla valutazione critica un evidente problema di collocazione nell’opera complessiva dello scrittore a quell’altezza; ma soprattutto pone l’imperiosa questione (in un Sudafrica appena liberatosi dell’apartheid) della valutazione politica di quello che sembra un gesto di disimpegno da parte di un autore che era stato invece salutato come un’importante voce di dissenso nel paese, in particolare dopo Age of Iron (1990). E per di più, come ad anticipare queste critiche, il romanzo tematizza precisamente la relazione fra autore e pubblico, autore e potere, autore e censura, autore e corpo politico, autore e mercato, autore e celebrità procurata dall’industrializzazione della scrittura, e poi ancora autorialità e (presunta) autorità morale – e tutto questo attraverso una figura di autore fraudolento e a tratti persino demonico, rovesciamento dell’idealizzazione romantica della creatività e dell’ispirazione artistica. Tuttavia, in questo romanzo – che sostiene un numero impressionante di letture – si delinea anche un’altra figura autoriale, molto più intima (al punto che mi spingo a sostenere che sia questo il più autobiografico dei suoi romanzi, assai più della successiva trilogia di Boyhood, Youth e Summertime), perché qui Coetzee elabora in tutta evidenza, e con un gran numero di riferimenti puntuali, anche il lutto per la morte violenta del figlio Nicolas avvenuta nel 1989.

The Master of Petersburg di J.M. Coetzee, o l'opera come autotentazione

Lucia Fiorella
In corso di stampa

Abstract

Fra i romanzi della fase sudafricana di J.M. Coetzee, e cioè quelli antecedenti all’attribuzione del Nobel e più marcatamente narrativi, The Master of Petersburg (1994) rimane uno dei testi meno studiati da una scholarship che si è invece esercitata copiosamente su tutti gli altri. La ragione va in parte cercata nel fatto che questo è l’unico romanzo in cui non vengono trattate tematiche postcoloniali, ponendo alla valutazione critica un evidente problema di collocazione nell’opera complessiva dello scrittore a quell’altezza; ma soprattutto pone l’imperiosa questione (in un Sudafrica appena liberatosi dell’apartheid) della valutazione politica di quello che sembra un gesto di disimpegno da parte di un autore che era stato invece salutato come un’importante voce di dissenso nel paese, in particolare dopo Age of Iron (1990). E per di più, come ad anticipare queste critiche, il romanzo tematizza precisamente la relazione fra autore e pubblico, autore e potere, autore e censura, autore e corpo politico, autore e mercato, autore e celebrità procurata dall’industrializzazione della scrittura, e poi ancora autorialità e (presunta) autorità morale – e tutto questo attraverso una figura di autore fraudolento e a tratti persino demonico, rovesciamento dell’idealizzazione romantica della creatività e dell’ispirazione artistica. Tuttavia, in questo romanzo – che sostiene un numero impressionante di letture – si delinea anche un’altra figura autoriale, molto più intima (al punto che mi spingo a sostenere che sia questo il più autobiografico dei suoi romanzi, assai più della successiva trilogia di Boyhood, Youth e Summertime), perché qui Coetzee elabora in tutta evidenza, e con un gran numero di riferimenti puntuali, anche il lutto per la morte violenta del figlio Nicolas avvenuta nel 1989.
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