Il trattamento sanzionatorio da irrogare ai recidivi rappresenta, da sempre, uno degli argomenti più dibattuti nell’ambito penalistico. Nelle prime fonti, tuttavia, la recidiva non viene teorizzata in termini generali, anche a causa della confusione con la più generale figura della reiterazione criminosa, la consuetudo delinquendi. Il vero snodo per il destino strutturale e funzionale dell’aggravante è senza dubbio rappresentato dal Code pénal francese del 1810, laddove per la prima volta viene introdotta normativamente una recidiva generica, applicabile a qualsivoglia tipologia di reato. Nel panorama nazionale – al cui interno si fronteggiano sull’argomento illustri Autori come Giovanni Carmignani, Francesco Carrara e Pellegrino Rossi – le soluzioni adottate sono estremamente variegate: si passa dalla scelta rigorosa del Codice per lo Regno delle Due Sicilie a quella più liberale effettuata nel Granducato di Toscana, che ispirerà il futuro Codice Zanardelli del 1889. A cavallo tra il XIX e il XX secolo si sviluppa in Italia la Scuola positiva, i cui rivoluzionari postulati scientifici relativi alla pericolosità sociale dell’individuo si pongono in antitesi con quelli del diritto penale classico. Dallo “scontro tra scuole” nasce l’art. 99 c.p., una norma di compromesso che cerca di accontentare tutti, ma che in fondo non soddisfa nessuno. Il risultato normativo è confuso e poco coerente, per cui nel 1974 viene approvata una storica riforma, che muta radicalmente i connotati della disciplina: il giudice, infatti, diviene il centro del sistema, dal momento che può non applicare discrezionalmente la recidiva e includere la stessa all’interno del giudizio di bilanciamento ex art. 69 c.p. Tali scelte, apprezzabili nell’ottica di un’umanizzazione del sistema, hanno avuto tuttavia il demerito di far scomparire dal panorama penalistico l’istituto, il quale dopo la novella trova raramente applicazione nella prassi delle aule giudiziarie. Così, all’inizio del nuovo millennio, il legislatore si trova di fronte a un bivio: può cercare di rivitalizzarlo oppure cogliere l’occasione per espungerlo in via definitiva dal codice, similmente a quanto accaduto in Germania nel 1986. La legge n. 251 del 2005, al contrario, si allinea alle politiche repressive statunitensi, che – mediante le “Three Strikes Laws” – hanno individuato nel recidivo il nemico della società, da combattere ed eliminare. Il testo della ex Cirielli si caratterizza infatti per un trattamento estremamente severo nei confronti di tali soggetti, con numerose preclusioni e automatismi in ambito sostanziale, processuale e finanche esecutivo. Gran parte di questi “effetti indiretti” mal si conciliano con i principi cardine in tema di commisurazione della pena, perché non permettono di calibrare la risposta sanzionatoria all’effettivo disvalore del fatto commesso. Proprio alla luce di ciò, non deve sorprendere l’attivismo della Consulta, impegnata a ricondurre l’intera disciplina entro i canoni della ragionevolezza. Tra i vari interventi, possiamo ricordare l’arresto n. 183 del 2011, con cui è stato dichiarato parzialmente incostituzionale l’art. 62 bis, comma 2, c.p.; altrettanto significative sono le quattro sentenze relative alle limitazioni al giudizio di bilanciamento ex art. 69, comma 4, c.p., grazie alle quali, in determinate ipotesi, il giudice è nuovamente libero di dichiarare la prevalenza delle attenuati sull’aggravante di cui all’art. 99, comma 4, c.p. La pronuncia più rilevante, tuttavia, è la n. 185 del 2015, mediante la quale – per la prima volta – il Giudice delle leggi interviene direttamente sull’art. 99 c.p., dichiarando l’incostituzionalità del regime obbligatorio sancito dal comma quinto. Nonostante gli enormi sforzi profusi dalla Consulta, l’assetto attuale della recidiva non pare ancora del tutto convincente, sia a causa dei perduranti profili di tensione con il dettato costituzionale, sia in un’ottica di razionalità dell’intero sistema penale. Per giungere a una disciplina più coerente, è necessario dapprima sciogliere il nodo dogmatico della natura e del fondamento giuridico dell’istituto. In ordine alla prima, non sembrano più esservi dubbi che la recidiva vada ricondotta nell’alveo delle circostanze in senso tecnico e non tra gli status personali di cui agli artt. 102 ss. c.p.: l’effetto aggravatore, la sua inclusione nel giudizio di bilanciamento e la stessa definizione data dall’art. 70 c.p. ne sono chiari indici, tant’è che la soluzione è stata adottata persino dalle Sezioni Unite della Cassazione e dai più recenti progetti di riforma della parte generale del codice penale. Più complesso il discorso relativo alla ratio, laddove si contendono il campo tre orientamenti di fondo: uno, di stampo retribuzionista, imperniato sulla maggiore colpevolezza del reo; quello ispirato a logiche di tipo special-preventivo, incentrato su una più elevata pericolosità sociale del soggetto; l’ultimo, di matrice prevalentemente giurisprudenziale, che cerca di unire le due ricostruzioni precedenti e prende il nome di bivalente o bidimensionale. L’unica lettura costituzionalmente orientata dell’istituto, specie con riguardo ai principi che governano la commisurazione della pena, è quella che valorizza la maggior colpevolezza, in termini normativi, del recidivo: il giudice, quindi, deve orientare il proprio potere discrezionale verso la gravità del reato già commesso, tralasciando la pericolosità sociale del reo o ulteriori prognosi proiettate in avanti. Il problema, a questo punto, nasce dalla constatazione che la gran parte degli “effetti indiretti” si ispira a una differente logica di maggiore pericolosità del soggetto: per risolvere questa complessa situazione si rende sempre più necessario un intervento del legislatore, il quale prosegua con coraggio l’opera di smantellamento di tali conseguenze indirette, iniziata – quantomeno per quelle previste in fase esecutiva – con il d.l. 1 luglio 2013, n. 78. Da tutt’altra angolatura, la ricaduta nel crimine rileva in maniera significativa sull’ingente spesa sostenuta dal Paese per mantenere il sistema carcerario e incide anche sul numero complessivo dei reclusi negli istituti penitenziari, peggiorando così la già critica situazione del sovraffollamento. I tassi di recidiva di coloro che hanno già scontato una pena detentiva sono assai elevati e superano il 50%. Per ovviare a tale preoccupante andamento è necessario ripensare profondamente il carcere, allineandosi ai principi stabiliti nelle raccomandazioni sovranazionali, in particolare nelle “Regole penitenziarie europee” del 2006, testo che valorizza i concetti di “carcere aperto” e “sorveglianza dinamica”. Se si guarda all’esempio norvegese, laddove tali modalità di esecuzione sono sperimentate da più tempo, si può osservare come la percentuale di ricaduta nel crimine sia decisamente inferiore (20%) e, soprattutto, l’espiazione della sanzione sia più rispettosa dei diritti fondamentali dell’individuo. Negli ultimi anni anche l’Italia ha iniziato ad adeguarsi agli standard richiesti a livello europeo e i risultati non sono tardati ad arrivare: da un indagine condotta presso le sezioni aperte istituite nella casa di reclusione di Bollate, infatti, si è potuto constatare come per ogni anno in più trascorso nel citato carcere, e quindi in meno all’interno di un altro, la recidiva si riduca di circa dieci punti percentuali.
La recidiva. Un discusso istituto tra passato e futuro / Pietro Perini - Udine. , 2017 May 03. 29. ciclo
La recidiva. Un discusso istituto tra passato e futuro
Perini, Pietro
2017-05-03
Abstract
Il trattamento sanzionatorio da irrogare ai recidivi rappresenta, da sempre, uno degli argomenti più dibattuti nell’ambito penalistico. Nelle prime fonti, tuttavia, la recidiva non viene teorizzata in termini generali, anche a causa della confusione con la più generale figura della reiterazione criminosa, la consuetudo delinquendi. Il vero snodo per il destino strutturale e funzionale dell’aggravante è senza dubbio rappresentato dal Code pénal francese del 1810, laddove per la prima volta viene introdotta normativamente una recidiva generica, applicabile a qualsivoglia tipologia di reato. Nel panorama nazionale – al cui interno si fronteggiano sull’argomento illustri Autori come Giovanni Carmignani, Francesco Carrara e Pellegrino Rossi – le soluzioni adottate sono estremamente variegate: si passa dalla scelta rigorosa del Codice per lo Regno delle Due Sicilie a quella più liberale effettuata nel Granducato di Toscana, che ispirerà il futuro Codice Zanardelli del 1889. A cavallo tra il XIX e il XX secolo si sviluppa in Italia la Scuola positiva, i cui rivoluzionari postulati scientifici relativi alla pericolosità sociale dell’individuo si pongono in antitesi con quelli del diritto penale classico. Dallo “scontro tra scuole” nasce l’art. 99 c.p., una norma di compromesso che cerca di accontentare tutti, ma che in fondo non soddisfa nessuno. Il risultato normativo è confuso e poco coerente, per cui nel 1974 viene approvata una storica riforma, che muta radicalmente i connotati della disciplina: il giudice, infatti, diviene il centro del sistema, dal momento che può non applicare discrezionalmente la recidiva e includere la stessa all’interno del giudizio di bilanciamento ex art. 69 c.p. Tali scelte, apprezzabili nell’ottica di un’umanizzazione del sistema, hanno avuto tuttavia il demerito di far scomparire dal panorama penalistico l’istituto, il quale dopo la novella trova raramente applicazione nella prassi delle aule giudiziarie. Così, all’inizio del nuovo millennio, il legislatore si trova di fronte a un bivio: può cercare di rivitalizzarlo oppure cogliere l’occasione per espungerlo in via definitiva dal codice, similmente a quanto accaduto in Germania nel 1986. La legge n. 251 del 2005, al contrario, si allinea alle politiche repressive statunitensi, che – mediante le “Three Strikes Laws” – hanno individuato nel recidivo il nemico della società, da combattere ed eliminare. Il testo della ex Cirielli si caratterizza infatti per un trattamento estremamente severo nei confronti di tali soggetti, con numerose preclusioni e automatismi in ambito sostanziale, processuale e finanche esecutivo. Gran parte di questi “effetti indiretti” mal si conciliano con i principi cardine in tema di commisurazione della pena, perché non permettono di calibrare la risposta sanzionatoria all’effettivo disvalore del fatto commesso. Proprio alla luce di ciò, non deve sorprendere l’attivismo della Consulta, impegnata a ricondurre l’intera disciplina entro i canoni della ragionevolezza. Tra i vari interventi, possiamo ricordare l’arresto n. 183 del 2011, con cui è stato dichiarato parzialmente incostituzionale l’art. 62 bis, comma 2, c.p.; altrettanto significative sono le quattro sentenze relative alle limitazioni al giudizio di bilanciamento ex art. 69, comma 4, c.p., grazie alle quali, in determinate ipotesi, il giudice è nuovamente libero di dichiarare la prevalenza delle attenuati sull’aggravante di cui all’art. 99, comma 4, c.p. La pronuncia più rilevante, tuttavia, è la n. 185 del 2015, mediante la quale – per la prima volta – il Giudice delle leggi interviene direttamente sull’art. 99 c.p., dichiarando l’incostituzionalità del regime obbligatorio sancito dal comma quinto. Nonostante gli enormi sforzi profusi dalla Consulta, l’assetto attuale della recidiva non pare ancora del tutto convincente, sia a causa dei perduranti profili di tensione con il dettato costituzionale, sia in un’ottica di razionalità dell’intero sistema penale. Per giungere a una disciplina più coerente, è necessario dapprima sciogliere il nodo dogmatico della natura e del fondamento giuridico dell’istituto. In ordine alla prima, non sembrano più esservi dubbi che la recidiva vada ricondotta nell’alveo delle circostanze in senso tecnico e non tra gli status personali di cui agli artt. 102 ss. c.p.: l’effetto aggravatore, la sua inclusione nel giudizio di bilanciamento e la stessa definizione data dall’art. 70 c.p. ne sono chiari indici, tant’è che la soluzione è stata adottata persino dalle Sezioni Unite della Cassazione e dai più recenti progetti di riforma della parte generale del codice penale. Più complesso il discorso relativo alla ratio, laddove si contendono il campo tre orientamenti di fondo: uno, di stampo retribuzionista, imperniato sulla maggiore colpevolezza del reo; quello ispirato a logiche di tipo special-preventivo, incentrato su una più elevata pericolosità sociale del soggetto; l’ultimo, di matrice prevalentemente giurisprudenziale, che cerca di unire le due ricostruzioni precedenti e prende il nome di bivalente o bidimensionale. L’unica lettura costituzionalmente orientata dell’istituto, specie con riguardo ai principi che governano la commisurazione della pena, è quella che valorizza la maggior colpevolezza, in termini normativi, del recidivo: il giudice, quindi, deve orientare il proprio potere discrezionale verso la gravità del reato già commesso, tralasciando la pericolosità sociale del reo o ulteriori prognosi proiettate in avanti. Il problema, a questo punto, nasce dalla constatazione che la gran parte degli “effetti indiretti” si ispira a una differente logica di maggiore pericolosità del soggetto: per risolvere questa complessa situazione si rende sempre più necessario un intervento del legislatore, il quale prosegua con coraggio l’opera di smantellamento di tali conseguenze indirette, iniziata – quantomeno per quelle previste in fase esecutiva – con il d.l. 1 luglio 2013, n. 78. Da tutt’altra angolatura, la ricaduta nel crimine rileva in maniera significativa sull’ingente spesa sostenuta dal Paese per mantenere il sistema carcerario e incide anche sul numero complessivo dei reclusi negli istituti penitenziari, peggiorando così la già critica situazione del sovraffollamento. I tassi di recidiva di coloro che hanno già scontato una pena detentiva sono assai elevati e superano il 50%. Per ovviare a tale preoccupante andamento è necessario ripensare profondamente il carcere, allineandosi ai principi stabiliti nelle raccomandazioni sovranazionali, in particolare nelle “Regole penitenziarie europee” del 2006, testo che valorizza i concetti di “carcere aperto” e “sorveglianza dinamica”. Se si guarda all’esempio norvegese, laddove tali modalità di esecuzione sono sperimentate da più tempo, si può osservare come la percentuale di ricaduta nel crimine sia decisamente inferiore (20%) e, soprattutto, l’espiazione della sanzione sia più rispettosa dei diritti fondamentali dell’individuo. Negli ultimi anni anche l’Italia ha iniziato ad adeguarsi agli standard richiesti a livello europeo e i risultati non sono tardati ad arrivare: da un indagine condotta presso le sezioni aperte istituite nella casa di reclusione di Bollate, infatti, si è potuto constatare come per ogni anno in più trascorso nel citato carcere, e quindi in meno all’interno di un altro, la recidiva si riduca di circa dieci punti percentuali.File | Dimensione | Formato | |
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