A lungo trascurato dalla critica e solo di recente riscoperto dai gender studies, The Law and the Lady (1875) di Wilkie Collins è un testo di affascinante complessità pur nella trasparenza del dettato e dell’allestimento immaginativo. Si tratta infatti di un’opera ambigua, contraddittoria, che si annovera fra i primi esempi di romanzo investigativo-giudiziario e già ne nega i presupposti ideologici, decostruendo dall’interno una formula che proprio in quegli anni va precisandosi. Se infatti il detective e il courtroom novel articolano il racconto restaurativo e perciò consolatorio di una comunità che punisce i trasgressori e ripara alle offese secondo giustizia, The Law and the Lady narra la storia opposta di un errore giudiziario e della necessità dell’iniziativa privata per scagionare un innocente; e racconta della diseguaglianza femminile di fronte a una legge che si vorrebbe imparziale – che è poi anche la legge della rigida separazione delle sfere del pubblico e del privato, sfere cui gli individui vengono assegnati in base alla loro identità di genere. Drammatizzando il conflitto fra modelli culturali e istanze individuali, il romanzo mette in scena una galleria di personaggi sostanzialmente androgini, che ridefiniscono ogni volta il proprio genere a seconda dell’interlocutore, in base cioè a un rapporto sociale che nulla ha a che fare con il determinismo biologico: così, ad esempio la Signora protagonista si improvvisa detective per amore sfidando la Legge della netta differenziazione dei ruoli sessuali e, dimostrando il proprio valore, prova al contempo l’inettitudine degli investigatori regolari, gettando una seria ipoteca sull’attendibilità della giustizia ordinaria. Sarebbe tuttavia un errore attribuire a Wilkie Collins (come ha fatto la critica femminista), una progettualità politica nel ritratto di questa emancipazione femminile, al di là di una pur sentita partecipazione alla ‘questione’ delle donne. E non solo perché il finale, dal punto di vista contenutistico come da quello formale, smentisce questo processo con la ‘regressione’ della pasionaria a deliziata puerpera, ma soprattutto perché la verità finalmente trovata risulta indicibile per un romanzo giallo: nessun delitto, se non in potenza, e nessun colpevole. Piuttosto, di maggiore interesse è la marcata natura metaletteraria del testo, con la Signora che si pone come autrice della propria storia ed elegge i lettori a supremi giudici, in base a una legge del cuore capace di ammettere singolarità ed eccezioni, e valutare il problema che sfugge al diritto ordinario: quello delle responsabilità morali.

The Law and the Lady fra emancipazione e ritorno all'ordine

FIORELLA L
2012-01-01

Abstract

A lungo trascurato dalla critica e solo di recente riscoperto dai gender studies, The Law and the Lady (1875) di Wilkie Collins è un testo di affascinante complessità pur nella trasparenza del dettato e dell’allestimento immaginativo. Si tratta infatti di un’opera ambigua, contraddittoria, che si annovera fra i primi esempi di romanzo investigativo-giudiziario e già ne nega i presupposti ideologici, decostruendo dall’interno una formula che proprio in quegli anni va precisandosi. Se infatti il detective e il courtroom novel articolano il racconto restaurativo e perciò consolatorio di una comunità che punisce i trasgressori e ripara alle offese secondo giustizia, The Law and the Lady narra la storia opposta di un errore giudiziario e della necessità dell’iniziativa privata per scagionare un innocente; e racconta della diseguaglianza femminile di fronte a una legge che si vorrebbe imparziale – che è poi anche la legge della rigida separazione delle sfere del pubblico e del privato, sfere cui gli individui vengono assegnati in base alla loro identità di genere. Drammatizzando il conflitto fra modelli culturali e istanze individuali, il romanzo mette in scena una galleria di personaggi sostanzialmente androgini, che ridefiniscono ogni volta il proprio genere a seconda dell’interlocutore, in base cioè a un rapporto sociale che nulla ha a che fare con il determinismo biologico: così, ad esempio la Signora protagonista si improvvisa detective per amore sfidando la Legge della netta differenziazione dei ruoli sessuali e, dimostrando il proprio valore, prova al contempo l’inettitudine degli investigatori regolari, gettando una seria ipoteca sull’attendibilità della giustizia ordinaria. Sarebbe tuttavia un errore attribuire a Wilkie Collins (come ha fatto la critica femminista), una progettualità politica nel ritratto di questa emancipazione femminile, al di là di una pur sentita partecipazione alla ‘questione’ delle donne. E non solo perché il finale, dal punto di vista contenutistico come da quello formale, smentisce questo processo con la ‘regressione’ della pasionaria a deliziata puerpera, ma soprattutto perché la verità finalmente trovata risulta indicibile per un romanzo giallo: nessun delitto, se non in potenza, e nessun colpevole. Piuttosto, di maggiore interesse è la marcata natura metaletteraria del testo, con la Signora che si pone come autrice della propria storia ed elegge i lettori a supremi giudici, in base a una legge del cuore capace di ammettere singolarità ed eccezioni, e valutare il problema che sfugge al diritto ordinario: quello delle responsabilità morali.
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