La cineasta pugliese Cecilia Mangini è stata una figura emblematica nel panorama italiano del cinema delle donne, interprete di un’idea di film documentario nata nel rigore formale dell’estetica cinematografica. Legata a Pier Paolo Pasolini da sodalizio artistico, si ispira al romanzo Ragazzi di vita (1955) per la sua prima pellicola: Ignoti alla città (1958), racconto della marginalizzazione sociale dei ragazzi di borgata. È un ritratto di Roma distante dalla precettistica convenzionale del cinema non-fiction, che negli anni Cinquanta promuove la ricostruzione post-bellica, nonostante l’uso della pellicola Ferraniacolor (impiegata anche nei documentari sponsorizzati) e della voce fuori campo dagli accenti elegiaci. Con Essere donne (1965) racconterà con lucida visione i cambiamenti della condizione femminile in atto nel paese. Ma prima l’estrema sperimentazione di Stendalì fissa le poche dimensioni dell’esistenza in cui, al Sud, il femminile può esprimersi. I gesti stereotipati, la voce extradiegetica che pare provenire da arcaiche profondità, il virtuosismo delle inquadrature costruiscono un mosaico ieratico, “un pezzo di ghiaccio entro cui brucia una fiamma” [Kandinskij, Punto, linea, superficie, 1925]. L’astrazione, strumento di analisi dello sguardo, fa di quel corpo femminile un nodo simbolico, un necessario punto di passaggio tra passato e presente.
Schermo, linea, superficie. Cecilia Mangini e l’astrazione analitica
Catanese, Rossella;
2021-01-01
Abstract
La cineasta pugliese Cecilia Mangini è stata una figura emblematica nel panorama italiano del cinema delle donne, interprete di un’idea di film documentario nata nel rigore formale dell’estetica cinematografica. Legata a Pier Paolo Pasolini da sodalizio artistico, si ispira al romanzo Ragazzi di vita (1955) per la sua prima pellicola: Ignoti alla città (1958), racconto della marginalizzazione sociale dei ragazzi di borgata. È un ritratto di Roma distante dalla precettistica convenzionale del cinema non-fiction, che negli anni Cinquanta promuove la ricostruzione post-bellica, nonostante l’uso della pellicola Ferraniacolor (impiegata anche nei documentari sponsorizzati) e della voce fuori campo dagli accenti elegiaci. Con Essere donne (1965) racconterà con lucida visione i cambiamenti della condizione femminile in atto nel paese. Ma prima l’estrema sperimentazione di Stendalì fissa le poche dimensioni dell’esistenza in cui, al Sud, il femminile può esprimersi. I gesti stereotipati, la voce extradiegetica che pare provenire da arcaiche profondità, il virtuosismo delle inquadrature costruiscono un mosaico ieratico, “un pezzo di ghiaccio entro cui brucia una fiamma” [Kandinskij, Punto, linea, superficie, 1925]. L’astrazione, strumento di analisi dello sguardo, fa di quel corpo femminile un nodo simbolico, un necessario punto di passaggio tra passato e presente.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.