Muovendo dalla pratica del restauro cinematografico in ambiente digitale e da alcuni casi di ricostruzione testuale di film effettuati a partire da copie digitali, l’articolo intende riflettere sulle implicazioni teoriche e critiche profonde della produzione di artefatti digitali mediante scanner, all’interno del cosiddetto processo di “digital intermediate” durante la preservazione del film. In particolare l’articolo intende riflettere sulla riqualificazione della nozione di “innovazione” e di “errore” nel campo della filologia, quando si prendono in considerazione dei “testimoni” digitali di un film analogico. Come già sottolineato da Barbara Flueckiger (2018), lo scanner e il setting impostato per l’operazione di rimediazione (Bolter-Grusin 2003) e transfer digitale di un’immagine analogica, non garantiscono una trasmissione neutra delle informazioni contenute sul supporto analogico di partenza; lo scanning, al contrario, e il software ad esso associato, determinano continue innovazioni, aggiustamenti e correzioni delle informazioni trasmesse nel momento della digitalizzazione. Come sottolineato da Matthew Kirshenbaum (2008), infatti, è iscritto nella natura stessa del digitale il “formattare” output perfetti da input imperfetti, “normalizzando” se non proprio “restaurando” automaticamente il segnale in ogni fase dell’operazione. Tale premesse devono dunque portarci ad argomentare ulteriormente il peso di quella che potremmo definire come l’“autorità” dello scanner, le cui azioni “blackboxed” impattano – prima di qualsiasi intervento umano - sull’apparenza del testo filmico nella sua veste digitale e ne modificano i caratteri formali. Fino a che punto possiamo qualificare l’istanza attiva – o l’“autorità” – dello scanner nelle modifiche apparenti del testo filmico risultante dall’operazione di transfer digitale? Come qualificare in termini critici le innovazioni introdotte dallo scanner nell’immagine rimediata? A che condizioni posso parlare di una copia digitale attendibile di un film analogico? A completamento degli argomenti, l’articolo rifletterà anche a partire da alcuni esperimenti condotti recentemente come forma di “un-boxing” delle operazioni di “restoring” automatico che il software associato allo scanning attiva nella trasmissione del dato (Kromer 2022): ovvero l’impiego di specifici codec che, bypassando la normalizzazione del dato, abilitano l’accesso al raw data. Lungi dal voler essere un contributo eccessivamente tecnico, l’articolo rifletterà sulle implicazioni di ordine critico ed estetico del considerare lo scanner come un’infrastruttura “innovatrice” del testo che non ha ancora ricevuto sufficiente attenzione teorica e speculativa.

Note sull’ecdotica digitale del film

andrea mariani
Primo
2023-01-01

Abstract

Muovendo dalla pratica del restauro cinematografico in ambiente digitale e da alcuni casi di ricostruzione testuale di film effettuati a partire da copie digitali, l’articolo intende riflettere sulle implicazioni teoriche e critiche profonde della produzione di artefatti digitali mediante scanner, all’interno del cosiddetto processo di “digital intermediate” durante la preservazione del film. In particolare l’articolo intende riflettere sulla riqualificazione della nozione di “innovazione” e di “errore” nel campo della filologia, quando si prendono in considerazione dei “testimoni” digitali di un film analogico. Come già sottolineato da Barbara Flueckiger (2018), lo scanner e il setting impostato per l’operazione di rimediazione (Bolter-Grusin 2003) e transfer digitale di un’immagine analogica, non garantiscono una trasmissione neutra delle informazioni contenute sul supporto analogico di partenza; lo scanning, al contrario, e il software ad esso associato, determinano continue innovazioni, aggiustamenti e correzioni delle informazioni trasmesse nel momento della digitalizzazione. Come sottolineato da Matthew Kirshenbaum (2008), infatti, è iscritto nella natura stessa del digitale il “formattare” output perfetti da input imperfetti, “normalizzando” se non proprio “restaurando” automaticamente il segnale in ogni fase dell’operazione. Tale premesse devono dunque portarci ad argomentare ulteriormente il peso di quella che potremmo definire come l’“autorità” dello scanner, le cui azioni “blackboxed” impattano – prima di qualsiasi intervento umano - sull’apparenza del testo filmico nella sua veste digitale e ne modificano i caratteri formali. Fino a che punto possiamo qualificare l’istanza attiva – o l’“autorità” – dello scanner nelle modifiche apparenti del testo filmico risultante dall’operazione di transfer digitale? Come qualificare in termini critici le innovazioni introdotte dallo scanner nell’immagine rimediata? A che condizioni posso parlare di una copia digitale attendibile di un film analogico? A completamento degli argomenti, l’articolo rifletterà anche a partire da alcuni esperimenti condotti recentemente come forma di “un-boxing” delle operazioni di “restoring” automatico che il software associato allo scanning attiva nella trasmissione del dato (Kromer 2022): ovvero l’impiego di specifici codec che, bypassando la normalizzazione del dato, abilitano l’accesso al raw data. Lungi dal voler essere un contributo eccessivamente tecnico, l’articolo rifletterà sulle implicazioni di ordine critico ed estetico del considerare lo scanner come un’infrastruttura “innovatrice” del testo che non ha ancora ricevuto sufficiente attenzione teorica e speculativa.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11390/1285875
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